Descrizione
Dopo il 1950 Mark Tobey abbandona la cosiddetta Scrittura Bianca a vantaggio di linee più scure e stili differenti: si passa attraverso le tempeste di colore degli Space Paintings degli anni Cinquanta, alle linee frammentate, spesse e colorate degli anni Sessanta fino alle agglomerazioni con pennelli grossi che si avvicinano di più al Tachisme europeo. L’artista nel 1960 decide di stabilirsi permanentemente a Basilea, in Svizzera, entrando definitivamente in contatto con le avanguardie europee. I colori grigi, l’alternanza del tratto (sottile o spesso) e le zone della tela definite con ampie campiture, caratterizzano la maggior parte di questi dipinti che evocano spesso il mondo naturale, mostrandone gli aspetti più nascosti in primo piano. Queste opere ricordano una rete di cellule viste attraverso un microscopio, una superficie rocciosa segnata dalle intemperie, a volte le venature della corteccia di un albero, o le screziature del marmo. Questo continuo riferimento alla sfera naturale si deve alla vicinanza dell’artista alla religione orientale Bahá’í che professa l’importanza del rapporto dell’uomo con la natura. La critica dell’arte Dominique Stella, parlando dell’arte astratta di Tobey, definisce bene questa fase creativa del pittore americano: «L’arte di Tobey supera la vocazione visiva dell’opera per raggiungere l’immaterialità e il vuoto che ha appreso dai calligrafi cinesi e giapponesi, i quali nel vuoto vedono il grado più elevato della forza creativa. Lo spazio è un concetto che supera il visivo e che lo interessa più della sfera materiale della tela. Al di là della rappresentazione tridimensionale, egli ricerca ciò che potrebbe davvero toccare. […] La ricerca di una quarta dimensione, di un’energia immateriale, più suggerita che tangibile, deriva dal desiderio di raggiungere tutti i sensi al di là della visione analitica e razionale…». Ed è proprio questa descrizione pittorica del vuoto che distingue questa produzione dalla precedente: le opere realizzate grazie alla White Writing sono caratterizzate da una maggiore fisicità, da uno spazio più definito; queste, invece, trasmettono un senso di vago e di vuoto. A questa osservazione ben si accosta ciò che nel 1962 lo stesso Tobey scrive nel descrivere la sua arte: «È vero che oggi si parla di stili internazionali, ma penso che in futuro si parlerà di stili universali […]. Il futuro del mondo deve essere la materializzazione della sua unicità, che è l’insegnamento di base della fede Bahá’í, così come la intendo io, e a partire da questa unicità emergerà un nuovo stile dell’arte…». (Martina Borghi)